Farfalle ribelli. I lavoratori tra passato e futuro nel libro di Cremaschi

Il conflitto sindacale o politico è una droga potentissima: fa concentrare l’attenzione dei protagonisti sull’assoluto presente. Si sta attenti a cosa si può vincere o perdere in questa battaglia concreta. È necessario, se si vuole “stare sul pezzo”, attaccare e difendersi in tempo reale. E si perde inevitabilmente di vista il lungo periodo, i cambiamenti strutturali che intervengono, specie se investono sfere al di fuori del nostro controllo immediato. Occorre sempre uno sforzo soggettivo incredibile per “fare il punto” ad ogni stazione rilevante di questo cammino, per accumulare l’esperienza collettiva, fissarla in organizzazione stabile, ma reattiva agli inevitabili cambiamenti. È esattamente il contrario di quel che predicavano, decenni orsono, certi sciagurati che facevano “l’elogio dell’assenza di memoria”, inventandosi il bizzarro principio per cui, se non si sa nulla delle sconfitte passate, si procede più risolutamente sulla via del conflitto. Ricominciando ogni volta da sciame, folla, plebe, racaille, “massa” consapevole soltanto dei propri bisogni e del proprio numero. Senza progetto, storia, futuro. Ovvero quel che più desidera qualsiasi potere, diciamolo: un avversario incompetente.

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L’industria deve tornare a casa, dicono i (padroni) metalmeccanici

Contrordine, imprenditori! È l’ora del re-shoring. Come sempre la parola d’ordine viene dall’America, anzi dagli Stati Uniti e fa data ormai da quando Obama è stato eletto la prima volta, quasi sei anni fa. Ma si sa, qui in Europa, e soprattutto in Italia, siamo un po’ più lenti. Anche nel copiare un orientamento di politica industriale ci vuole qualche anno.

Cos’è il re-shoring? Si torna a casa, si riporta la produzione “in patria”, si lascia perdere con le delocalizzazioni nei paesi a basso costo del lavoro. “La competizione si è spostata”, spiega il giovane vice-presidente di Federmeccanica Alberto Dal Poz, fondatore della Comet quando era ancora sulle scalinate dell’università di Torino; si torna indietro.

La globalizzazione è finita, diremmo noi. Gli imprenditori della “ferramenta” industriale preferiscono parlare di “orgoglio metalmeccanico” e chiedono al governo – in Italia come stanno facendo altrove – di tornare ad occuparsi di politica industriale; ovvero di decidere quali siano “le priorità del paese” e agire di conseguenza, “proteggendo” o favorendo i comparti relativi.

Per molti versi sembra di ascoltare una lezione di keynesismo. Dimenticati in un attimo tutti i mantra ripetitivi sulla “invisibile e benefica mano del mercato”, sulla libertà assoluta dell’impresa di andare dove la porta il portafoglio e “la massima crazione di valore per gli azionisti”. O, perlomeno, tutta questa libertà non va più bene se si traduce in perdita delle “eccellenze”, delle “risorse uomo”, delle competenze e del know how. Ovvero se, “competendo”, si perde…

Gli esempi sono clamorosi, tutti pilastri del “dirigismo statale”, sia che si parli di Stati Uniti – da Obama che decide di far vivere la Chrysler scegliendo la Fiat come “padrone virtuale”, ovvero come impresa privata incaricata di realizzare gli obiettivi fissati dallla Casa Bianca; fino ai francesi che stanno per riprendersi la produzione di auto elettriche in funzione a Parigi; o alla Gran Bretagna (liberista solo quando si tratta di comprare imprese altrui) e alla Spagna, che hanno deciso – per esempio – di mantenere alta la produzione-assemblaggio di auto nel proprio paese e hanno crato anche un “ambiente favorevole” al raggiungimento dell’obiettivo. Lì si producono ancorapiù auto di quante se ne vendano sul mercato interno.

Il contrario di quanto è avvenuto in Italia fin dagli anni ’90 – tra gli inni elevati da coristi un po’ sgraziati ma ben pagati – dove qualsiasi idea di politica industriale è stata sbeffeggiata come “residuo novecentesco”, ostacolo al libero dispiegamento degli animal spirits e belinate simili. Basti pensare alle sorti di imprese strategiche come Telecom e Alitalia, lasciate deperire e morire rimettendoci persino decine di miliardi (pubblici, naturalmente). O alle sorti future – periclitanti – di altri colossi altrettanto strategici come Finmeccanica, Eni, Enel, Alenia. Per non parlare della Fiat, cui è stato permesso di tutto fin quando non ha deciso di andarsene “diventando americana”, al guinzaglio niente affatto lento di un governo che sa cosa vuole e come ottenerlo, anche dai mitici “privati”.

Contrordine, dunque. Non è solo un fatto di “orgoglio” – non facciamo ridere, please – ma di struttura dei costi, infrastrutture, mercati di sbocco, politiche fiscali, know how. Roba che qui in parte c’è e altove no, nonostante il costo del lavoro minore. Soprattutto, dopo oltre ventii anni di crescita a doppia cifra, le “economie emergenti” sono infine emerse, presentando anche il conto: salari in crescita inarrestabile (ancora inferiori ai nostri, certo, ma le spese di trasporto finiscono per annullare il residuo vantaggio), brevetti proprietari in crescita esplosiva, competizione diretta sugli stessi comparti dei “delocalizzatori” occidentali, legislazioni del lavoro e fiscali meno favorevoli di prima (per le imprese).

Il problema è che qui la situazione è per altri versi tragica. La domanda interna è scomparsa o quasi (ma cosa vi aspettavate, dopo venti anni di deindustrializzazione e chiusure?), le competenze sono diventate scarse proprio dove più sono necessarie (cosa pensavate di ottenere, chiudendo i rubinetti della spesa per “ricerca e sviluppo”?), il sistema bancario è ostile alle imprese “fisiche”, oberato da “sofferenze” che fanno percepire gli industriali dei clienti indebitati da evitare.

È addirittura paradossale. Certo, saranno contentissimi se il governo regalerà loro il Jobs Act, l’abolizione dell’art. 18 e la mano libera in azienda… Figuriamoci. Ma le grandi industrie metalmeccaniche – ed anche quelle piccole – non vedono tanto di buon occhio la precarietà contrattuale; non sanno bene che farsene perché la loro attività non è “per natura” un banale usa-e-getta. Addirittura Dal Poz si lascia scappare un “quando c’è troppa precarietà in azienda, è l’azienda che è diventata precaria”; ovvero che fa fatica a stare sul mercato.

Qui la parola d’ordine che supporta il “tornare a casa” è “progettare la prossima ripresa”. Un’eresia, fino a ieri mattina; un richiesta di “Stato” con tutte le maiuscole che potete metterci. Uno Stato che sappia scegliere – appunto – “le priorità” e quindi fornire un supporto ambientale (“un pacchetto completo”) alle imprese manifatturiere.

C’è da dire che i dati presentati nella 131° “indagine congiunturale” di Federmeccanica non lasciano più spazio al liberismo ideologico. Non tanto per quel -1,6% nel secondo trimestre del 2014 o per quel –1,9 rispetto allo stesso periodo del 2013. Siamo in stagnazione – a voler essere ottimisti – da oltre tre anni, nessuno si aspetta un rovesciamento di tendenza in tempi brevi. Ma quel -31% rispetto al 2007, data di inizio ufficiale della crisi attuale, dice che siamo ormai in un altro mondo, descrive un sistema industriale che non potrà tornare mai quello di prima senza robusti investimenti (pubblici, ça và sans dire) sufficienti a generare “fiducia” in chi deve poi decidere, da privato imprenditore, dove buttare caso mai la propria scommessa.

Non è la richiesta di un settore economico marginale. La metalmeccanica italiana vale l’8% del Pil complessivo, il 40% dell’industria in senso stretto ed anche delle esportazioni italiane. È solo grazie ai “meccanici” che il saldo delle partite correnti – il rapporto tra valore delle esportazioni e quello delle importazioni – è ancora positivo per ben 30 miliardi. Senza “ferramenta” sarebbe negativo per la stessa cifra.

Si chiede dunque un cambio di indirizzo totale, di cui la classe politica – e persino gli analisti di Confindustria – fatica ancora a capire le dimensioni, predisponendo le giuste a contorno. Certo, qui si plaude alla scuola “interfacciata col mondo del lavoro”, alla formazione fatta dalle aziende ma pagata da qualcun altro, ecc.

Ma sono altri i dati che gettano – per noi – uno squarcio sul prossimo futuro. Crollano le esportazioni verso la Russia e il Medio Oriente, oltre che verso l’India (non sappiamo mai se sparargli o corromperli, quando si avvicinano…), in virtù delle nuvole di guerra che si addensano su quelle rotte, oltre al peso di sanzioni e controsanzioni. Ma non è neppure qui il cuore della questione.

Le “notizie positive” in termini di produzione e fatturato vengono infatti da settori inquietanti. Come quel +5,6% derivante dalla “produzione di altri mezzi di trasporto”. Dizione neutra, indicante quasi un “residuo” rispetto a comparti ben più definiti; ma che comprende il traino eccezionale che sta avendo in questo momento “l’aeronautica e l’aerospaziale”. Mezzi di trasporto, certo, ma davvero particolari…

La globalizzazione è finita, si deve tornare a produrre “in casa” e anche un po’ di più “per casa” (intendendo con questo l’Unione Europea, verso cui le esportazioni crescono al rtimo del 5,3% anche in un trimestre negativo). E ci si deve “armare meglio” per competere sui mercati globali. In tutti i sensi, pare.

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L’Oligarchia Occidentale

Il capitalismo ha divorziato per sempre dalla democrazia. E dire che l’aveva riscoperta solo due secoli fa, sollevandola da forma di regime politico adatto a piccole comunità (le città-stato della Grecia classica e rare esperienze altrettanto dimensionalmente limitate in altre epoche e culture) a “regola quasi obbligatoria” di composizione sociale in abbinamento allo stato-nazione.

Non che l’ideale democratico sia mai stato realizzato nella pratica corrente delle democrazie occidentali. È noto che la democrazia è stata più formale che sostanziale in quasi tutti gli stati dell’occidente capitalistico; in altri termini, all’egualianza formale declamata dalle Costituzioni non è mai corrisposta l’egualianza reale. Né sul piano impervio del benessere, né su quello della possibilità di influire sulla decisione politica (ovvero: riguardante l’insieme dei “cittadini”).

Ma l’affermazione dell’egualianza almeno formale non era fin qui mai stata messa in discussione, costituendo il più potente fattore di legittimazione del modo di produzione capitalistico, nonché l’asse ideologico portante, capace di giustificare la pretesa “superiorità morale” del capitalismo rispetto a sistemi economici alternativi (il socialismo, e nessun altro). Solo se tutti siamo formalmente uguali, legittimati a concorrere per qualsiasi carica, legittimati a organizzarci per sostenere collettivamente interessi sociali particolari (tramite partiti, sindacati e associazioni di ogni tipo) e così co-determinare il corso politico del paese, si può credibilmente sostenere che tanto basti a inverare “l’ugualianza” tra i cittadini. Lasciando sullo sfondo o nascondendo intenzionalmente le differenze reali, i conflitti fra le classi, le emarginazioni e le esclusioni.

Tutto questo è finito, relegato al passato o alle illusioni di “progresso”.

Non siamo noi a dirlo, ma i maestri – autonominatisi e molto presuntuosi – del pensiero liberale e “progressista” di tutto l’Occidente.

È sempre più frequente, insistita, ricorrente, l’affermazione per cui la “governabilità” – o la governance, ovvero l’amministrazione pura e semplice di decisioni generali insindacabili prese da “tecnici” o centri di potere irraggiungibili – deve prevalere sempre e comunque sulla “discussione”, sulle “mediazioni” sociali e politiche. Il governo Renzi presenta quotidianamente un campionario bulimico di espressioni che, ognuna per sé e tutte insieme, significano esattamente questo.

Ma bisogna dare atto che la questione è stata sollevata nei suoi termini più brutali, con qualche involontaria sincerità, addirittura da uno dei guri del pensiero liberal italiano: Eugenio Scalfari. Nel suo editoriale di domenica, su Repubblica, ha per un verso restituito l’onore delle armi al concetto di “ideologia” e per l’altro seppellito senza nostalgia qualsiasi illusione sulla “democrazia”.

La prima parte è quasi condivisibile, pur confermando l’antica confusione concettuale tra ideologia e concezione del mondo.

Quando nel 1989 cadde il muro di Berlino, la prima conclusione che ne trassero in tutto il mondo le persone che si interessano alla storia che abbiamo alle spalle e agli scenari che si prospettano nel futuro, fu che le ideologie erano state sepolte per sempre. La storia è finita, scrisse un intellettuale di molto prestigio (Francis Fukuyama, ndr); ora non c’è che il pragmatismo, si decide giorno per giorno secondo i problemi concreti e senza alcun pre-giudizio.
Sbagliava e lui stesso lo riconobbe qualche anno dopo. L’ideologia significa orientarsi secondo un sistema di idee interconnesse da una dominante: si privilegia l’eguaglianza oppure la libertà, la tutela dei più deboli oppure i risultati della gara dalla quale emergono i vincitori e soccombono gli sconfitti e così via. Ciascuna di queste visioni è un’ideologia: il socialismo è un’ideologia, il liberismo, il progressismo, il machiavellismo, l’esortazione alla carità oppure la totale indifferenza per tutto ciò che non ci riguarda direttamente. Ciascuno di questi modi di pensare è un’ideologia e noi viviamo in conformità a quella prescelta che però cambierà nel tempo come noi stessi cambieremo. Perciò parlare di fine delle ideologie e rallegrarcene è una pura sciocchezza.

Quasi vero. Se non fosse che la pretesa “fine delle ideologie” è stata una delle chiavi di volta – ideologiche, non per caso – con cui è stato smantellata la legittimità ad esistere di  ogni sistema di valori egualitario (non solo quello socialista, se dobbiamo prendere sul serio, come va fatto, la crisi di senso della Chiesa Cattolica), alternativo o semplicemente differente. Ma il cuore significante dell’argomentazione scalfariana è un altro.

Il secondo tema con il quale confrontarsi è la contrapposizione che molti fanno tra democrazia, cioè potere del popolo, e l’oligarchia, cioè potere di pochi. Almeno a parole la grande maggioranza è per la democrazia che prevede tuttavia alcune varianti: quella esercitata dal popolo direttamente (l’agorà greca, la piazza nei comuni medievali, il sistema referendario esteso e facilitato al massimo).
Se posso dare il mio giudizio, io credo che la sola e vera forma che realizza la sovranità sociale sia l’oligarchia. Se vogliamo il modello più antico è quello teorizzato da Platone nel suo dialogo sulla “Repubblica”.
Certo l’oligarchia, per tutelare la libertà e la partecipazione, deve adottare alcune condizioni: deve essere democraticamente eletta, aperta sia a molte entrate sia a frequenti uscite; insomma deve rinnovarsi senza distinzione tra i ceti sociali di provenienza. Un’oligarchia chiusa o rinnovata soltanto per cooptazione è quanto di peggio possa accadere, ma se è aperta è il solo vero modo di affidare la società ai migliori e verrà giudicata dal cosiddetto popolo sovrano come consuntivo delle sue azioni sia in politica sia nelle istituzioni sociali ed economiche attraverso libere elezioni.

Qui il discorso è finalmente esplicito, anche se privo della contestualizzazione storico-econiomica che giustifica il “salto di paradigma” dalla democra tout-court a una “oligarchia temperata” dalla formale persistenza di procedure elettorali prive però di opzioni alternative.

Lasciamo perdere tutte le sciocchezze su Platone e l’antica Roma (non occorre essere degli specialisti per vedere che Scalfari mette nello stesso piatto animali appartenenti a generi assai doversi) e concentriamoci sull’affermazione “epocale”: io credo che la sola e vera forma che realizza la sovranità sociale sia l’oligarchia.

Resta la sovranità, ma non più “popolare”. Ovvero fondata sulla totalità dei cittadini e a loro soltanto appartenete. Ce n’è una nuova: “sociale”. Ma senza alcun’altra specificazione. E sospettiamo che Scalfari tenda a farla coincidere con la volontà degli stessi oligarchi.

Come vedete non esiste alcuna specificità temporale, nessuna “condizione storica determinata”, in grado di spiegare il fulmineo passaggio dal considerare come l’optimum la democrazia all’affermazione mestastorica della “superiorità” dell’oligarchia. In ogni epoca, sotto qualsiasi modo di produzione, nel solco di qualsiasi cultura millenaria o solo secolare… Oligarchia per sempre, insomma. Uno stigma per discplinare la natura umana, non una forma politica dalle alternie fortune…

Sorvoliamo anche sul “dettaglio” per cui il giornale da lui fondato, in queste settimane, va sostenendo l’offensiva statunitense e dell’Unione Europea contro la Russia, sul nodo ucraino, argomentando come sempre le differenze epocali tra la “democrazia” (il campo cui veniamo iscritti d’ufficio) e “l’oligarchia putiniana”. Oligarchi contro, perché dovremmo preferirne alcuni contro altri? Sorvoliamo…

Andiamo invece fino in fondo allo sragionare scalfariano. A che cosa viene ridotta, a questo punto, la “democrazia”? All’esistenza di procedure elettorali in grado di selezionare gli oligarchi e alla possibilità di ricambio frequente nel gruppo ristretto dei “decisori”.

Troppo facile vedere in questo discorso una giustificazione a posteriori della “resistibile ascesa” di Matteo Renzi nell’olimpo dei “riformatori”, ovvero degli architetti della sospirata oligarchia perenne. Troppo facile e troppo poco, perché il pessimo ideologo Scalfari – “elevando” la riflessione dalla palude della contingenza politica al cielo delle teorie sui sistemi politici – compie un’operazione che corrisponde in pieno al punto d’arrivo di una riflessione esistente da oltre 40 anni all’interno dei decision makers occidentali: metter fine alla democrazia per cercare di assicurare un futuro al capitalismo.

Il mondo è com’è, ed è il teatro d’azione del capitale multinazionale. Inutile cercare – suggerisce Scalfari – di mantenere in vita quell’ideale democratico per cui tutti siamo alla pari davanti alla nazione e alle sue leggi e concorriamo – partecipando – alla formazione delle decisioni, quindi all’evoluzione politica. Quel che si deve fare è deciso da altre parti. E da lì ci arrivano degli input che dobbiamo soltanto adattare quel che resta della nostra struttura economica e sociale.

Inutile dunque illudere “il popolo” che possa dire qualcosa di sensato su come il Paese deve essere guidato e trasformato. Inutile e dannoso lasciare ancora credere che esistano “diritti esigibili” sul piano sociale (sanità, welfare, benessere, ecc) e addirittura su quello politico (partiti alternativi a quelli “maggioritari per destino”). Siamo in un sistema oligarchico e tutto quel che “il popolo” può fare è decretare quali oligarchi si debbano far da parte alla fine di un ciclo, favorendo l’ingresso di “nuuovi assunti”.

Ci avete fatto caso? Scalfari riduce l’importanza delle stesse elezioni a una sola funzione: “Un’oligarchia […] verrà giudicata dal cosiddetto popolo sovrano come consuntivo delle sue azioni sia in politica sia nelle istituzioni sociali ed economiche attraverso libere elezioni”.

Noi “cosiddetti”, insomma, possiamo solo essere chiamati ad alzare o ad abbassare il pollice ogni tot anni, come la plebe romana nel circo. Le elezioni come “giudizio sul passato”, non come indicazione del futuro che si vuol realizzare.

Discorso già sentito, fra l’altro in sede di “studi” commissionati dall’Aspen Institute. Povero Eugenio, non gli è rimato neppure un tocco di originalità…

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Consiglio, per integrare, la lettura di due articoli diversi ma convergenti. Uno di Dante Barontini, su Contropiano, proprio a proposito dei politologi dell’Aspen. L’altro, del sottoscritto, presentato un anno fa a un seminario internazionale su “Rompere la gabbia dell’Unione Europea”, che mi sembra anticipi in più passaggi quel che uno stralunato Scalfari osa dire soltanto oggi.

a) http://contropiano.org/documenti/item/24962-per-fortuna-sono-proteste-senza-progetto-parola-di-aspen?highlight=YToxOntpOjA7czo1OiJhc3BlbiI7fQ==

b) Capitalismo, democrazia, politica. Cambio in corsa, sul numero di Contropiano uscito nel febbraio di quest’anno.

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Tifosi o giocatori, questo è il problema

Apprezzo tutti gli sforzi dei compagni di interpretare quanto accaduto a Roma sabato sera, in occasione della finale di Coppa Italia. E non vorrei nemmeno intervenire per mettere insieme quelli che, a me almeno, sembrano quasi dei dati di fatto.

Intanto: cosa è diventato il calcio col suo seguito di tifo organizzato? Non riesco sinceramente a vedere altro che una variopinta schiera di consumatori fidelizzati di uno spettacolo che ha per protagoniste alcune aziende più o meno capaci di produrre profitti. Un “campanilismo coatto” – nel doppio senso, scontato, che ognuno può leggere – che appare nemmeno troppo in trasparenza come un invito a condividere e aumentare la “competitività” dell’azienda stessa. Un invito assolutamente simile a quello che viene rivolto, spesso alle stesse persone in veste di lavoratori, a “sentirsi sulla stessa barca” dell’azienda per cui si fatica, a “competere” con la concorrenza. Fiat contro Volkswagen o Ford, Telecom contro Vodafone o Wind, e via esemplificando.

Pretendo di non essere “frainteso”. Non mi sfugge affatto che – vista “dal basso”, dalle singole soggettività o dalle micro-comunità aggregate sul territorio – la partecipazione ai riti del tifo sia un modo di manifestare sogni di riscatto, passioni, ansia di appartenenza, produzione di culture popolari anche molto vive e letterariamente salaci. Né ignoro che questa passione comporti dei costi pesanti per chi vi partecipa (abbonamenti, viaggi, rischi fisici e legali, ecc), tali da rendere addirittura “eroica” l’adesione. Così come so che le strategie repressive di uno Stato per altri aspetti inesistente hanno spesso preso di mira le curve come “laboratorio” di sperimentazione dal vivo.

Ma “il manico” non viene tenuto da chi sta nella padella. Ci sono delle aziende di un comparto produttivo preciso che impiegano professionisti di livello  internazionale – ormai quasi tutti molto bravi, atleti che molto sinceramente ammiro – e catalizzano queste passioni, fornendo obiettivi di identificazione (vittorie, trofei, ecc), merchandising, ideologia “easy”, “sponde” giornalistiche-politiche-imprenditoriali, un minimo o un massimo di “indotto” (dalla gestione del merchandising a quello delle sostanze stupefacenti).

In primo luogo, insomma, vendono identità a persone, figure sociali, strati che non l’hanno mai avuta o la stanno perdendo. Ed è un’identità vissuta addirittura come “conflittuale” perché competitiva con altre assolutamente identiche o speculari. Vendono, in altri termini, un validissimo sostituto del nemico (sociale o politico) contro cui scaricare tutti i malesseri creati da una condizione sociale decisamente critica, carica di pericoli fisicamente avvertibili ma di assolutamente indecifrabile origine. Se il nemico vero è pressoché invisibile, o comunque inarrivabile – l’Unione Europea, le multinazionali, i mercati finanziari – è relativamente semplice far “ripiegare” le frustrazioni su quello che ti sta più vicino. Chiedere alla Lega o ai vari Lepen per averne una dimostrazione.

Il fatto empirico che siano identità “campanilistiche” assicura tra l’altro un altissimo grado di conflittualità inter-identitaria, cui a volte – spesso, ma non sempre – si sovrappone il meta-conflitto con la polizia e le altre “forze dell’ordine”.

Superfluo rifare qui il paragone con la “religione oppio dei popoli”, perché i tratti di similitudine sono certamente molti, ma uno sicuramente non c’è: l’universalismo. La religione di appartenenza certamente “compete” con tutte le altre, ma come quelle pretende di essere valida per tutta l’umanità. Fanno eccezione le religioni dei presunti “popoli eletti”, quelli secondo cui l’unico dio non parla a tutti gli uomini, ma soltanto al “proprio” popolo. Proprietà privata ante litteram, anche nell’immaginario spirituale…

Nel tifo – organizzato o meno – “l’altro” è invece necessario. Può essere disprezzato, deriso, offeso e bastonato. Ma non eliminato né redento. La prossima partita pretende un avversario. Da battere, naturalmente, ma ci deve essere. Non c’è alcuna palingenesi o “terra promessa” alla fine della competizione. Qualsiasi coppa varrà per una notte o al massimo per un anno. A settembre, in ogni caso, si ricomincia.

La “competitività” è insomma qui introiettata come non solo inevitabile, ma come il sale della vita, elemento “naturale” che esclude qualsiasi cooperazione (tranne, appunto, quella occasionale contro le polizie, semplice braccio armato del potere). Si può inveire contro i dirigenti “tirchi” della propria azienda di riferimento, o con la superiore capacità truffaldina dei dirigenti avversari (mitica la “Rubentus”, ormai), o ancora con lo scarso impegno/talento dei “propri” idoli/dipendenti.

Basterebbe questo a dare una cifra perennemente subordinata dell’”autorganizzazione” più o meno spontanea del tifo. Subordinata e non conflittuale con alcuna scelta del potere, se non il mugugno di un momento quando sia dimostrata – o immaginata – una complicità del potere “terzo” (arbitrale in senso stretto, dalla Lega Calcio ai singoli direttori di gara) con l’avversario di turno.

È dai tempi di “Ultrà” (il film) che si analizza il tifo calcistico – e non solo questo – come sostituto identitario del conflitto politico, se non altro a livello giovanile. Il processo reale è andato più veloce e più in profondità dei suoi analisti. Oggi come allora le frange politicizzate del tifo sono raramente palesi (Livorno sugli scudi, in questo ambito), quasi sempre scuole di formazione “coperte”, in maschera, prevalentemente di destra, a caccia di “talenti” da riutilizzare in altri campi.

Le facce di Renzi, Grasso, De Laurentis, Della Valle – sabato sera – esprimevano compiutamente la preoccupazione per le sorti di un business dai tanti risvolti governamentali “positivi” per chi comanda davvero. Ma nessuna incertezza su chi fosse il manovratore, su chi tenga il manico della padella. E gli annunci di oggi – daspo a vita, spese di polizia a carico delle società, più arresti, denunce, galera, ecc – sono la puntuale giravolta di immagine di una classe dirigente impotente davanti agli eventi, ma estremamente vendicativa sul piano legislativo. Né può sfuggire come la tragedia del sabato sera romano sia tornata utilissima per restituire alle “forze dell’ordine” quell’aura sacrale che “zainetti umani” e applausi agli assassini di Federico Aldrovandi avevano intaccato.

Dall’altra parte la sceneggiata della “rappresentanza deviata” e deviante. Nella forma masaniello (Genny a’ carogna) o in quella “killer dei poveri” (il fascista De Santis). Se non ci fosse la vita di Ciro Esposito in ballo, ci sarebbe da scrivere un bel saggio su come si gestisce il potere nel capitalismo metropolitano nella crisi. Non sociologico. Semmai storico, rispolverando “le fazioni del Circo di Costantinopoli” e la loro utilità per la stabilità del potere.

Del resto è nella natura del “tifo” l’accettare le regole del gioco e sperare nel successo altrui. Al contrario, si cambia qualcosa solo se siamo noi a giocare – tutti nella stessa squadra – la nostra partita.

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E’ il capitalismo, bellezza!

Bisogna saper riconoscere i capolavori. E questo di Andrea De Benedetti, padrone del gruppo L’Espresso e quindi di Repubblica, tessera numero uno del Pd e affossatore dell’Olivetti che aveva preso in mano quando era ancora una delle quattro big dell’informatica globale (insieme a Ibm, Honeywell e Bull), è un capolavoro.

A sua insaputa, naturalmente.

In un paio di paginette, pubblicate nel suo blog sull’Huffington Post italiano. De Benedetti concentra tutti i luoghi comuni dell’ideologia neoliberista e, contemporaneamente, il proprio terrore per le logiche conseguenze di questi topoi quando scendono dal cielo dell’ideologia per diventare prassi. O meglio: quando “la concorrenza”, osannata finché sei il più forte o quasi in un certo mercato, non ti presenta davanti qualcuno enormemente più concorrenziale di te.

Sia chiaro: le paure di De Benedetti davanti all’avanzare inarrestabile di Google come soggetto editoriale globale, capace di stroncare qualsiasi altro soggetto creatore di contenuti pur non creandone alcuno in proprio è reale e condivisibile da qualsiasi individuo sano di mente. L’assurdità – dal punto di vista di un cantore e beneficiario delle “virtù” del capitalismo privo di vincoli – è che sia sia lui a esprimerla con tanta forza. Abbassando un po’ il livello, è come se Ichino o Sacconi o Poletti si lamentassero di esser stati assunti con contratti a termine e pagati 500 euro al mese…

Detto questo, il percorso logico di De Benedetti è tragicomico. Parte col peana a Dopfner, giovane e rampantissimo dirigente editoriale tedesco, capace di issarsi a meno di 40 anni al vertice di un colosso come Springer. Per descriverlo, subito dopo , come un “davide” davanti al golia Google… Lo stesso Dopfner è prigioniero dell’identica sindrome, perché nella sua lettera che “lancia l’allarme” è costretto a dichiarare la sua “ammirazione” per il gruppo di Mountain View. Capitalisticamente parlando non può fare altro che riconoscere l’immensa capacità di Schmidt e Brin di “creare valore per gli azionisti” (unico obiettivo obbligatorio riconosciuto all’impresa negli ultimi trenta anni). Salvo poi lamentarsi del fatto che questa straordinaria abilità significa una riduzione drastica della propria capacità di “creare valore per gli azionisti” quando ci si trova a “competere” con Google nello stesso settore. O, come dice De Benedetti, “se non lavori con loro, in alcuni casi non lavori affatto”.

Un dato interessante, citato en passant, è la sproporzione assoluta – esistente ormai in determinati comparti hitech – tra fatturato e occupazione (50.000 dipendenti contro 60 miliardi di dollari). Il che dovrebbe allarmare tutti quegli aspiranti “consiglieri del principe” che teorizzano la possibilità di “uscire dalla crisi” con una limitata iniezione di investimenti (pubblici, dato che di privati “nazionali”, a partire da De Benedetti, non se ne vedono). L’innovazione tecnologica – o l’aumento della composizione organica del capitale – è arrivata al punto che per creare un posto di lavoro capitalisticamente “vero” occorre investire una massa di capitale fisso enormemente superiore a quella di poche decine di anni fa. Le uniche eccezioni alla regola vengono appunto da ex start up di successo, come Google, che prevalgono nella competizione in un settore per alcuni anni “vergine” come l’informatica. Il segreto del successo nell’informatica sta nella possibilità di “vendere” un prodotto (dal costo di produzione in fondo abbastanza basso) in un numero pressoché illimitato di copie (il “modello Microsoft, per molti anni, che imponeva contrattualmente ai produttori di hardware l’installazione del proprio sistema operativo); oppure nella gestione-controllo delle connessioni dati di tutto il mondo o quasi (il modello Google, appunto, con tutto il monopolio della pubblicità che si porta dietro). Qui c’è la similitudine più forte con il business editoriale, dove un determinato prodotto – un giornale o un libro – ha le potenzialità per essere replicato su qualsiasi scala dimensionale con un investimento relativamente basso (il costo di produzione di un libro, per esempio, a differenza da quello di un’automobile, diminuisce molto rapidamente quante più copie ne vengono ordinate).

Ma torniamo alle paure del povero imprenditore De Benedetti: “ il monopolio privato dell’accesso digitale alla conoscenza è uno strumento di omologazione senza precedenti nella storia”.

Qui, probabilmente senza accorgersi dell’enormità che va sollevando, il patron di Repubblica tocca il sistema nervoso centrale del modo di produzione capitalistico. Ovvero la contraddizione tra il “miserabile fine dell’appropriazione privatistica” (il profitto, banalmente) e la socialità universale del bene privatizzato. Questo vale per ogni bene prodotto capitalisticamente, ma è chiaro che la conoscenza ha un quid decisamente superiore agli altri. Qui, insomma, si rivela con molta maggiore chiarezza l’incompatibilità del capitalismo con lo sviluppo umano ulteriore. O, in altre parole, prende corpo fisico la previsione teorica del fatto che il modo di produzione (l’appropriazione privata) diventa ad un certo punto un limite allo sviluppo stesso.

Uno dei limiti, non l’unico (gli altri due sono: la resistenza dei lavoratori costretti ad assicurarsi almeno le condizioni della riproduzione e la limitatezza insuperabile delle risorse naturali non riproducibili, ecosistema compreso). Ma è un limite che esplode in faccia a De Benedetti e tutti gli altri imprenditori che si vedono sul punto di essere asserviti da Google.

Peggio che comica è infatti la considerazione “geostrategica” sull’uso che Google fa dei dati archiviati: “gli operatori digitali globali immagazzinano dati personali raccolti fuori da qualsiasi controllo, che ci riducono in balìa di chi ne fa illegittimo uso come le agenzie di sicurezza americane (e se fossero quelle di Putin o di qualche regime prossimo venturo?)”. Come se la minaccia alle libertà fondamentali – a partire dall’accesso alla conoscenza – fosse più o meno grave a seconda dell’identità ideologica del monopolista.

Sta di fatto, però, che anche questo pessimo campione del liberismo “democratico” sia costretto a registrare il passaggio – in realtà già avvenuto – a un regime oligarchico su scala globale.

Come se ne esce? La “regolazione europea” di cui parlano sia Dopfner che De Benedetti richiederebbe – per essere efficace – quasi una dichiarazione di guerra agli Stati Uniti (il primo governo ad essere completamente identificato con le “proprie” multinazionali). Un “riequilibrio” in questo settore strategico implica infatti una rottura sostanziale di un monopolio. È quello che stanno cercando di realizzare Cina e Russia, senza fare grandi annunci pubblici. Ma è un passo che andrebbe nella direzione di un “multipolarismo” sostitutivo dell’egemonia statunitense sul mondo. L’equivalente, in campo digitale, della rottura dell’egemonia del dollaro in campo monetario. De Benedetti sta su questo versante “putiniano”? C’è da dubitarne.

Ma una “regolazione globale” è al di là del pensabile, perché gli Stati Uniti dovrebbero unilateralmente rinunciare a proprio vantaggio strategico.

E quindi le “cinque proposte” di Dopfner-De Benedetti si restringono a una difesa del “diritto d’autore” e dei contenuti editoriali che potrà essere forse fatta valere verso i “piccoli” – come il sottoscritto, che qui critica un articolo riprendendolo da altra fonte, senza aver dovuto pagare per leggerlo – ma che sarà come oggi assolutamente inefficace verso blob onnivori come Google.

Una conclusione misera dopo aver sollevato un problema enorme. L’imprenditoria italiana sembra condannata da sempre a questo destino.

*****

Come Dopfner perché ho paura di Google

Andrea De Benedetti

Mathias Dopfner è un eccellente giornalista e un precoce quanto capace dirigente editoriale. A nemmeno vent’anni critico musicale e poi corrispondente da Bruxelles del più compassato quotidiano tedesco, la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), a 32 anni direttore del settimanale berlinese Wochenpost, a 34 dell’Hamburger Morgenpost, a 36 della Die Welt, autorevole testata del gruppo Axel Springer, del quale è diventato amministratore delegato prima ancora di compiere 39 anni.

Lo conosco da allora e lo considero il più innovatore e coraggioso editore europeo avendo egli trasformato in pochi anni un’azienda in difficoltà nella più efficiente macchina editoriale d’Europa e, nel suo genere, del mondo. Non mi sono dunque stupito quando due settimane fa la FAZ ha pubblicato la clamorosa lettera aperta di Dopfner a Eric Schmidt, ex CEO e ora presidente esecutivo di Google. Lo dico subito: sono al suo fianco quando scrive “di Google ho paura”, espone con chiarezza le molte complesse motivazioni di questa affermazione, denuncia la natura obbligata dei rapporti con il motore di ricerca di Page, Brin e Schmidt “con il quale il mio gruppo è costretto a fare affari perché siamo Golia Google e David Axel Springer”. Potremmo dire lo stesso noi del Gruppo Espresso: se non lavori con loro, in alcuni casi non lavori affatto.

Eppure, ammette Dopfner, “sono un grande ammiratore di Google, che in pochi anni è cresciuta fino a dare lavoro a quasi 50mila persone e fatturare 60 miliardi di dollari, con una capitalizzazione di oltre 350. Con i suoi 14 miliardi, l’utile annuale di Google è circa venti volte quello di Axel Springer”. Io stesso alcuni mesi fa ho scritto nel mio blog sull’Huffington Post Italia che vanno riconosciuti a Google entusiasmo, creatività e capacità di costruire valore senza pari. Tuttavia, come Dopfner, ne ho timore: da cittadino italiano ed europeo, anzitutto, perché il monopolio privato dell’accesso digitale alla conoscenza è uno strumento di omologazione senza precedenti nella storia.

Perché, poi, le cronache registrano che – da anni! – gli operatori digitali globali immagazzinano dati personali raccolti fuori da qualsiasi controllo, che ci riducono in balìa di chi ne fa illegittimo uso come le agenzie di sicurezza americane (e se fossero quelle di Putin o di qualche regime prossimo venturo?). Perché l’incapacità da parte dei regolatori di mettere potenziali concorrenti globali e locali su uno stesso piano favorisce la concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di pochi, con rischi per la natura stessa del capitalismo di mercato. Perché chi dovrebbe definire a livelli mondiale, comunitario e nazionale il perimetro del campo e le regole del gioco non è più in grado di fare il proprio mestiere: di fatto, non sapendo come intervenire, non interviene per niente. Perché, alla resa dei conti, assistiamo impotenti alla sostituzione di un’imperfetta democrazia analogica con una perfetta oligarchia digitale.

Dopfner non solo illustra tutto questo con esempi: ne porta le prove, come si direbbe in un tribunale. È da lì, dalla sua lettera, che possiamo cominciare a elaborare una strategia europea che punti a ripristinare l’equilibrio in un ecosistema che l’ha perso. Saremo con lui.

Dobbiamo dunque fare la nostra parte sia nel consesso europeo sia in quello nazionale. Per quest’ultimo propongo di partire dall’obiettivo condiviso – il minimo comune denominatore – di focalizzare sul digitale l’investimento del sistema paese. Faccio un esempio senza uscire dal mio settore di competenza, l’editoria, dov’è da tempo un dato di fatto che per valorizzare i contenuti informativi, culturali ed educativi servono regole che impediscano agli operatori globali di farne strumenti con i quali razziare ulteriori risorse locali. Tre anni fa l’Antitrust italiano ne prendeva atto e segnalava al legislatore che “i contenuti editoriali online, accessibili e facilmente riproducibili nella loro forma digitale, sono utilizzati su Internet da una molteplicità di soggetti terzi − aggregatori, motori di ricerca, ecc. − che riproducono ed elaborano in vario modo i contenuti stessi, anche per fini di lucro. Le attuali norme sul diritto di autore non appaiono tener conto delle peculiarità tecnologiche ed economiche di Internet e non disciplinano un sistema di diritti di proprietà intellettuale”.

L’Autorità auspicava che la legge imponesse un rapporto corretto tra i titolari di diritti di esclusiva sui contenuti editoriali e i fornitori di servizi come Google. Sulla stessa lunghezza d’onda era l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Prendendo le mosse da queste considerazioni il governo Letta presentava un disegno di legge per emendare l’attuale norma al fine di consentire solo il riutilizzo autorizzato dei contenuti editoriali da parte dei cosiddetti Over The Top (OTT). Ovviamente non se n’è fatto nulla per la cronica carenza di volontà politica mentre nel frattempo in Germania il Bundestag approvava una legge molto simile alla proposta italiana. Perché l’esecutivo Renzi, che con tanta attenzione guarda a quanto si muove nei paesi a noi più vicini, non recupera e rilancia quella proposta?

Quel che più mi preme è proprio il livello europeo. Grazie al semestre italiano di presidenza e al prossimo cambio di guardia all’Europarlamento e alla Commissione, possiamo essere noi a tentare di trasformare in strategia industriale condivisa le analisi e le “prove di Dopfner”. Provo a indicare cinque ambiti sui quali lavorare insieme.

1. Del diritto d’autore, che pure non coincide perfettamente con il copyright anglosassone, ho già detto per quel che concerne l’Italia. È tuttavia evidente che non è più rinviabile un intervento armonizzatore da parte della UE oppure in sinergia tra i principali paesi dell’area.

2. Governo dei dati degli utenti. Non c’è un contesto normativo sovranazionale che fissi alcune punti-chiave sulla privacy digitale e sull’uso di dati raccolti dagli OTT in ambiti diversi da quelli propri. Inoltre, si dovrà tenere conto della necessità di adeguare costantemente le regole allo sviluppo tecnologico.

3. La tassazione nell’ecosistema digitale non può più essere come quella dei tempi dei commerci di beni solo fisici. La situazione attuale di difformi tassazioni per OTT e operatori nazionali ha già creato posizioni di preminenza competitiva non più recuperabili.

4. Il futuro della net neutrality (la garanzia per tutti di accesso e stessa “velocità” in rete) è il tema che sta dividendo in questi giorni i grandi operatori e i regolatori negli USA, mentre Bruxelles lo studia da tempo senza risultati concreti. È necessaria un’accelerazione.

5. La vicenda Almunia vs. Google ha messo in evidenza come l’Europa non riesca più a produrre iniziative antitrust efficaci come negli anni di Monti vs. Microsoft. Tornare a intervenire, a livello europeo, contro gli abusi di posizione dominante dovrà essere la priorità della Commissione che si insedierà in autunno.

Mi rendo conto che è un’agenda fitta. Tuttavia, solo un dibattito ampio e alto e una definizione rapida di soluzioni consentirà all’Europa di uscire dalle secche in cui s’è incagliata per i propri ritardi e ritardi e per la volontà neocolonialistica dei Nuovi Grandi Fratelli.

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L’Italia di Renzi, un lager per il lavoro

Certe cose bisogna studiarsele nei dettagli, altrimenti si resta prede della stampa di regime. Avete presente quella storia dei contratti a termine estesi dal governo Renzi fino a “3 anni e otto proroghe”? Beh, è tutto fumo negli occhi. Il testo del decreto è assai peggio. In pratica, si può restare assunti “a tempo determinato” anche per tutta la vita, con rinnovi ad libitum, “grazie” all’eliminazione completa di limiti preesistenti.

A spiegarlo nei dettagli provvedono i Giuristi Democratici, che hanno deciso di denunciare alla Commissione Europea il governo italiano per violazione – fra l’altro – della normativa comunitaria in materia. Naturalemente, il decreto di Renzi & co. È palesemente anticostituzionale sotto numerosi aspetti, al punto che – scherzando – gli esperti riuniti nella sala della Fondazione Lelio Basso possono dire: “questo decreto creerà certamente molto lavoro, ma per gli avvocati”. Anche Confindustria dovrebbe stare bene attenta a giore per la sua approvazione, perché si tratta di una “polpetta avvelenata”, esattamente per questo motivo.

L’impianto del decreto risulta anche alla prima analisi superficiale, “neoliberista in modo sfrenato”. Un disegno organico “difficilmente modificabile in sede parlamentare” (da questo parlamento, poi…), anche perché ogni compromesso su queste basi sarebbe “semplicemente sbagliato”. Sergio Mattone, decano dei giuslavoristi italiani, non riesce a trovare termini meno crudi per un decreto che punta esplicitamente a fare del lavoro dipendente una sostanza liquida, erogabile a domanda, usa-e-getta, senza diritti né tutele. Si può solo denunciare e combattere, non “migliorare” o attenuare (la cosiddetta “linea Fassina”).

È del resto la dodicesima volta in un ventennio che si interviene in materia di “mercato del lavoro”. Sempre con norme peggiorative orientate all’obiettivo della “maggiore flessibilità”. Quindi non è che sia rimasto molto da rimuovere, in fatto di “lacci e lacciuoli”. Se fosse vera la teoria che a maggiore flessibilità del lavoro fa seguito maggiore occupazione e crescita più solida, oggi dovremmmo insomma avere piena occupazione e tassi di sviluppo cinesi. E invece…

Detto questo, prima dell’ultimo intervento legislativo era possibile per una impresa far ricorso ai contratti atermine solo in presenza di “cause occasionali, instabili, non certe”. Insomma, per lavori stagionali (dal bagnino alla raccolta della frutta, dagli addetti agli impianti di risalita all’alberghiero nei posti di vacanza, o per picchi di domanda eccezionali e irripetbili). Le aziende dovevano dunque motivare “la causale” di questa assunzioni a tempo determinato.

La Fornero aveva già allentato il (molto relativo) vincolo, mantenendo l’obbligo della causale ma rendendo possibile il contratto a termine per qualsiasi lavoro, anche non occasionale. Un solo limite: la durata complessiva non poteva andare oltre l’anno, 12 mesi.

Renzi ha abolito ogni limite ed anche la causale. Il limite dei tre anni di cui hanno parlato i media, infatti, vale per il singolo contratto, non per la successione dei contratti. E in ogni caso il singolo contratto a termine può essere comunque prorogato con accordo aziendale e su richiesta del singolo lavoratore… Basta immaginarselo un attimo: “la prego, signor padrone, mi lasci precario ancora per qualche mese, poi vediamo se è il caso di assumermi in pianta stabile”. È uno scenario credibile, no?

Si tratta dunque di un decreto che annulla ogni possibile tutela del singolo lavoratore, ma non è senza precedenti. Un referendum chiesto dai radicali, quindici anni fa, puntava allo stesso obiettivo. Ma venne dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale – sentenza 41/2000 – perché la “radicale assenza di tutele” prevista dal quesito andava ad intaccare diritti indisponibili persino alla “sovranità popolare”. Ovvero: se anche tutto il popolo italiano fosse stato d’accordo nell’eliminare le tutele del lavoro non si sarebbe potuto precedere in quel senso. Tanto più che persino la normativa europea – “sovraordinata” rispetto a quella nazionale – non era (e non è ancora) così carogna.

La constatazione può risultare soprendente, visto che è proprio l’Unione Europea ad insistere ogni giorno sulla necessità di “flessibilizzare il mercato del lavoro”. Ma anche qui bisogna tener conto del fattore tempo e delle modificazioni intercorse nella cultura istituzionale “dell’Europa”. La normativa comunitaria d’allora – fin qui non modificata – era figlia della condivisione generale del “modello sociale europeo”; le crescenti pressioni neoliberiste ancora non erano diventate “diktat”, né avevano assunto un ruolo così centrale gli interessi (tedeschi, soprattutto) ad avere delle “zone produttive speciali” all’interno dell’eurozona. Anzi, in quegli anni era la Germania a chiedere di poter sforare i limiti di Maastricht in modo da smaltire senza traumi le conseguenze della rapida “sussunzione” dei länder orientali.

È stata quella normativa, per esempio, a rendere possibili ben due sentenze di condanna per “riforme” imposte dal governo greco in questi anni; ed entrambe riguardano i contratti a termine, guarda caso. Si tratta delle sentenze Adelener (https://sites.google.com/site/midanazionale/riferimenti-normativi/elenco-decreti-leggi-art-costituzionali/c-212-04-caso-adeneler) e Kyriaki-Angelidaki (http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?isOldUri=true&uri=CELEX:62007CJ0378), esplicitamente rivolte ad impedire il “rischio di ricorso abusivo alle forme contrattuali a tempo determinato” e a fissare la cosiddetta “clausola di non regresso” (il rapporto di lavoro va legato alla condizione oggettiva in cui si svolge, per impedire abusi).

Ancora più semplice, sul piano giuuridico legale, è smontare l’applicazione pratica della nuova norma sull’apprendistato, secondo Carlo Guglielmi, visto che si abolisce sia l’obbligo aziendale di presentare un “piano formativo” dell’apprendista, sia la verifica pubblica di questa formazione. Senza formazione, infatti, non c’è apprendistato. Ma lo “spirito” del decreto si autodenuncia per ben quattro modifiche alla normativa precedente: a) abolisce l’obbligo di assumere stabilmente una quota degli “apprendisti” prima di poterne assumere altri con la stessa formula; b) rende la “certificazione pubblica” solo facoltativa (fare come volete, insomma); c) assegna un livello di inquadramento categoriale due gradini soto la mansione effettivamente compiuta (con un salario dunque significativamente minore del dovuto); d) considera per forfait il 35% del tempo lavorato come “formazione” e quindi non retribuito.

Che può volere di più un “datore di lavoro”? Perché mai dovrebbe, a questo punto, accettare il pur favorevole “contratto unico a tutele crescenti”? Non per caso, la famigerata “proposta Ichino” è stata rinviata a un secondo momento…

Secondo Pier Luigi Panici forse è persino troppo. Si tratta certo un colpo “violento” ai diritti del lavoratore; ma questo “eccesso” sembra frutto di una ignoranza giuridica e costituzionale che rende il testo stesso particolarmente debole. Il ministro del lavoro – si fa per dire – Poletti risulta su questo piano “addirittura imbarazzante” quando dice che “sono le tutele a creare disoccupazione”, manifestando sia “analfabetismo costituzionale” che scarsa conoscenza dell’evoluzione dell’economia italiana. Stesso ragionamento per Giorgio Napolitano, di solito abituato a filtrare i testi delle leggi al lume della Costituzione (ne ha rinviate diverse, durante i governi Berlusconi), che non ha avuto niente da eccepire contro l’inaudito ricorso alle “ragioni di necessità e urgenza” in materia di regole del mercato del lavoro.

Il contesto generale è comunque molto complicato. Lo “scudo” offerto dalla normativa comunitaria in materia di contratti a termine sembra ancora solido, ma esposto ai venti liberisti che dominano a Bruxelles. Altre sentenze della Corte di Lussemburgo, dovendo scegliere tra la “libertà di impresa” e il “diritto dei lavoratori”, hanno spostato decisamente l’asse dal lato del capitale. E nessuna inziativa legale o giuridica, in ogni caso, può colmare un vuoto di iniziativa sociale, di resistenza sindacale e politica. “Il diritto è riconoscimento del fatto”, diceva il saggio. E non basta mai, da solo, a contrastare l’avanzare dei nuovi fatti. Esattamente come il “custode della Costituzione” è disarmato davanti alla reazione autoritaria, se non s’addensa una Resistenza all’altezza della sfida.

Dall’analisi del “jobs act” renziano, anche solo limitatamente ai due primi provvedimenti presi – su contratti a termine e apprendistato – emerge dunque un programma politico-sociale ambizioso, criminale, ma chiaro: fare del “laboratorio Italia” la punta avanzata della reazione capitalistica contro il lavoro; il luogo in cui si sperimenta il peggio per farne un modello valido per tutto il Continente.

Rendersene conto è disegnare le coordinate fondamentali del campo di battaglia dei prossimi anni. Il minimo che si possa fare, per cominciare a ragionare di cambiamento.

 

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Militant A, la linea d’ombra a Centocelle

Non mi è facile parlare del libro di Luca. Parla delle mie strade, dei posti dove vivo da vecchio e ho corso da giovane, Tra Casilina e Tor de’ Schiavi, tra Centocelle e villa Gordiani e Torre Spaccata, sotto l’Alessandrino e la pista dell’aeroporto che non è più tale da una vita.

Non è facile perché non si ferma un attimo. È in presa diretta con la vita e lo sbattimento universale di chi come noi vive e spesso non ha il tempo di farsi domande troppo complicate.

È facilissimo per lo stesso motivo.

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Che fanno “i nostri”? Lavorano…

È da molto tempo che non si vedeva un libro di analisi economica e delle classi in Italia scritto da un gruppo di giovani militanti. “Dove sono i nostri”, fatica dei ClashCityWorkers dato alle stampe da LaCasaUscher, meriterebbe già solo per questo d’essere presentato.

Ma c’è decisamente di più. Intanto per come nasce. All’indomani delle due giornate di ottobre – 18 e 19 – che hanno visto entrare in scena un soggetto sociale e politico di inattesa composizione (sindacalismo di base, movimenti territoriali, occupanti di case, ecc); e dall’esigenza di “inquadrare” la novità, di individuarne le ragioni e le radici, per delineare i percorsi del suo possibile – terribilmente necessario – allargamento. In definitiva, nasce dall’esigenza di capire – appunto – “dove sono i nostri”, gli altri come noi, districandosi nella rete infinita di somiglianze e differenze che alla fine ci fanno essere – e sentire – tutti completamente soli.

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“Accordo sulla rappresentanza”, per rompere la Costituzione

“Tempi bui”, “dittatura”, “monopolio della rappresentanza”, “golpe”, “incostituzionale”. Non sono parole leggere, quelle che si alzano nel convegno dedicato all’analisi dell’”accordo sulla rappresentanza” siglato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria il 10 gennaio. Specie se a pronunciarle sono costituzionalisti democratici di altissimo livello (Gianni Ferrara, Gaetano Azzariti, Marco Pivetti) e giuslavoristi altrettanto considerati (Carlo Guglielmi del Forum diritti lavoro, Pierluigi Panici della Consulta legale Fiom), sindacalisti Usb e Cgil (dell’area “Il sindacato è un’altra cosa”, che ha presentato un documento alternativo a quello della Camusso).

Difficile del resto non accorgersi che la condizione materiale dei lavoratori e l’inquadramento legale del loro rapporto con le imprese (quelle che vengono chiamate sinteticamente “regole del mercato del lavoro”) è al centro assoluto delle “riforme strutturali” imposte dall’Unione Europea, nonché delle politiche economiche dei governi degli ultimi venti anni. Nessuno escluso, ricordando che il “pacchetto Treu” fu varato dall’esecutivo di Romano Prodi e con i voti anche di Rifondazione.

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Federmeccanica: “alla fine del tunnel forse c’è un rondò”

Seguire le “analisi congiunturali” di Federmeccanica è un rito per me ormai decennale, o più, che consegna ogni volta lo stato reale del settore guida dell’industria nazionale. Tutte le chiacchiere dei “politici”, ma anche molte congetture “di movimento”, spariscono come la polvere sotto l’azione di un buon lavavetri.

Un dato su tutti: in sei anni di crisi l’industria metalmeccanica ha perso il 30,4% di Pil, ma soprattutto il 25% di “capacità produttiva”. Cosa vuol dire? Un quarto degli impianti non funzionaerà mai più, è stato chiuso, perso per sempre. Se anche domattina scoppiasse un’improvvisa e forsennata domanda, gli impianti ancora in funzione non saprebbero come soddisfarla. Certo, quanti oggi viaggiano a “produzione ridotta” avrebbero più fiato, ma nell’insieme – pur lavorando al 100% – non potrebbero far fronte alle richieste.

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